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mercoledì 3 settembre 2008

Contributo dell'architetto Cavallo

In un momento storico in cui si parla dell'architettura quale organismo
vivente in simbiosi con l'uomo e la natura, seppur nell'era elettronica
e digitale, la democrazia urbana, la cultura del progetto e la speranza
per il futuro, sono i tre temi affrontati in giugno dal congresso
mondiali UIA.
A questi aggiungo la crisi sociale delle periferie, il
valore di testimonianza civile dell'architettura, la presenza
garantista delle "archistar", immagini di facciata per operazioni
immobiliari.

Verona, e i suoi amministratori, si muovono da una parte
fuori dalle dinamiche mondiali, dall'altra alla ricerca di facili
consensi, in piena crisi d'identità (seppur "l'identità" sia una
battaglia di centrodestra squisitamente elettorale) e in similitudine
con i sistemi totalitaristici e di regime, là dove l'architettura
doveva rappresentare il potere, al di là delle regole (vedi volontà di
scansare le soprintendenze).
Il tutto, negando la logica di una
naturale evoluzione della città, che vede il Restauro del Moderno un
punto chiave per il futuro, per mantenere l'unicità del territorio.

Se
dell'architettura di regime queste operazioni hanno la forma, non hanno
però la sostanza, in quanto tali progetti di riqualificazione urbana
seguono una logica 'a spizzico', dove è evidente il senso della
precarizzazione contemporanea.

Città alle porte delle città: ci si
dimentica del centro storico, o di un altro quartiere, per costruire da
un'altra parte, senza progetto, senza legami, nè stilistici, nè
culturali, senza logiche di flusso, di evoluzione, la città dei vivi e
la città dei morti. Quelle invisibili di calviniana memoria sono una
buona proiezione olistica, affrontano tematiche che oggi sono diventate
realtà, al di là di ogni più fantastica previsione o progetto.


Progettare è orientare il fare in base ad un fine, nel caso di
riqualificazioni urbane, il fine è la collettività, essere utile alla
città nei modi che scaturiscono dall'analisi del territorio e delle sue
esigenze e peculiarità, non imponendo dall'alto trasformazioni utili a
pochi.
Chi va ad abitare quei luoghi? Chi vuole abitare in una
"Futurama"? Chi si identifica in un progetto simile? Stiamo educando al
bello, alla salvaguardia del paesaggio (urbano) dell'ambiente?


Lasciando da parte considerazioni di carattere estetico, (ma diciamolo,
è proprio brutto il progetto, banale, uguale a mille altre periferie, o
centri commerciali, o quartieri di città, si perde l'unicità del luogo
e dunque di Verona), e non discutendo neppure dell'altezza degli
edifici che in fondo potrebbero essere elementi simbolici (vedi
Barcellona e la Torre di Nouvel), appare evidente che questa operazione
di "riqualificazione" altro non sia che un'operazione immobiliare, che
porta come facciata la falsa risoluzione del problema del degrado,
della sicurezza e di una società che rifiuta il diverso, garantita
dalla firma di un architetto internazionale, che arriva da lontano e
con dinamiche, uguali per tutte le metropoli, pone il suo sigillo.


Questo non è difendere anacronisticamente il passato, ma guardare con
competenza e coscienza il futuro, prevenire non curare, è
consapevolezza storica ed ambientale, è chiedersi quale relazione
sostenibile vi sia con l'esistente, quale partecipazione dal basso,
quale il bene comune partecipato, perché le trasformazioni di quel
pascolo, che è la città, come la chiamava Platone, è "affare"
importante soprattutto socialmente per chi abiterà i territori del
futuro.

Un approccio superficiale ed oligarchico, nascosto da un
decisionismo che è solo insofferenza alle regole, porta danno.

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