I nostri banchetti nei mercati

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mercoledì 10 marzo 2010

Giudicare al primo sguardo (di Claudia Guarnati)


Integrare o espatriare? Questo è il dilemma. Nessuno ha ragione e nessuno ha torto. Non sappiamo cosa farcene di tutti questi clandestini e, anche ragionandoci per mesi, non siamo ancora giunti a una conclusione. Nell’articolo di C. Tylor in “La politica del riconoscimento”, si trovano però alcune parole-chiave interessanti: “imposizioni di certe culture su altre”, “presunzione di superiorità”, “passato coloniale”, “marginalizzare i segmenti della popolazione provenienti da altre culture”: poche parole, tante verità. Noi Europei (quelli antichi, ancora chiusi al Baltico) ci crediamo i migliori, insieme all’America, tra antiche colonizzazioni, guerre mondiali e G8: quando abbiamo deciso di essere troppo maturi, o simili, per lottare fra di noi, siamo andati alla ricerca di un altro nemico con cui giocare a “chi si arrende per primo”. Abbiamo trovato un degno avversario in Medio-Oriente, anzi, due: Iran e Iraq. Senza parlare del conflitto tra Palestinesi e Israeliani, dove, noi potenze economiche e super avanzate socialmente e politicamente, ci divertiamo a mettere lo zampino, rischiando attacchi terroristici non leggeri da parte di quei burloni che si divertivano anche giocando da soli (giusto per pubblicizzare, un film d’animazione spiega egregiamente com’era la situazione: Persepolis). Non sarebbe corretto ignorarli, perché, anche volendo, la globalizzazione ce lo impedisce, potendoli spiare minuto per minuto; ma non è fantastico neanche inviare in quei paesi carne da macello sotto forma di soldati. Abbiamo passato secoli a discriminarci tra Inglesi e Francesi, Italiani e Tedeschi: ancora oggi sopravvivono i luoghi comuni. Che l’Asia stia passando il suo Medio Evo? L’unica certezza è che il dialogo è più raro dei kamikaze e non si può continuare così. Magari, invece di ragionare come ultracentennali combattenti di crociate e difensori dell’identità nazionale, potremmo cercare di osservare il loro ragionamento e aiutarli a risolvere la situazione alla loro maniera, ma impegnandoci per evitare inutili spargimenti di sangue.
Tutti gli immigrati di un Paese chiedono aiuto, fra le righe, a rendere la loro patria un posto migliore: basti ricordare che l’Italia è stata abbandonata da chiunque potesse nel periodo del “Mamma mia dammi cento lire che in America voglio andar”. Ora siamo noi la terra di splendore che gli emigranti sognano, eppure ci lamentiamo, vedendo solo i lati negativi: abituati alla bella vita di questi anni tecnologici, non ci rendiamo conto che i clandestini sanno cosa vuol dire soffrire la fame nel 2010 e immaginano la nostra patria contenta e felice, tra pizza e premier spiritosi, scegliendola come (pen)isola di salvezza. Ma la tesi più accreditata e plausibile è la più vicina alla realtà: siamo uno fra i Paesi più vicini agli Stati litigiosi e ingarbugliati; non godiamo di ottime frontiere, così come di un buon sistema giudiziario: si vocifera che i Romeni stupratori e denunciati, non si presentano davanti alla corte perché “Fra due settimane libero di nuovo sarò!” e si dà il via all’odio, poiché un elemento rappresenta l’intera stirpe: infatti noi italiani siamo tutti mafiosi.
Il rispetto è una cosa importante che ci manca, e questo episodio ne è la prova. Francesco Merlo, nel Corriere della Sera del 20 novembre 2001, sosteneva che “I nostri simboli religiosi non sono più armati e, per molti di noi, non parlano più di religione”. Forse dovremmo imparare da quegli alieni che fanno cinque preghiere al giorno cosa significa essere devoti e credere. L’articolo continua: ”Siamo pronti ad ospitare le diversità delle fedi, ma senza rinunciare alla nostra identità.” Forse nove anni fa eravamo più portati a tutto ciò: oggi cerchiamo solo “il meno peggio”. I genitori spaventati da figli che rischiano di non crescere xenofobi, vivendo fin dalle elementari in classi multiculturali; gli adolescenti che si picchiano fra italianissimi metallari e truzzi, figuriamoci gli “amanti del Fascio” cosa combinano ai “colorati” (altro che lavare a 40°!); gli adulti predicano bene e sono i primi a non ascoltarsi. Gli anziani? Semplice, loro se ne stanno comodi sulle loro poltrone a guardarci e ridono delle nostre vanità, perché, quando loro avevano i nostri anni sulle spalle, si era in guerra e “la gente si manciava la terra per riempire la pancia, si manciava le unghie”, come ricorda la nonna a Marianna Ucrìa nel libro sulla sua vita. Noi famiglie d’oggi abbiamo telefonini, televisioni e computer personali, però ci lamentiamo di chi scappa nella nostra città per cercare un futuro migliore per il proprio figlio. Cosa ci può rubare questo poveretto, africano o asiatico che sia? Un vergognoso lavoro opprimente e una confezione di biscotti sullo scaffale del supermercato. Ciònonostante noi proseguiamo ugualmente nel linciaggio.
Così passiamo da un estremismo all’altro: da quel manifesto politico che reca l’immagine di un indiano d’America con la scritta “Ora loro vivono nelle riserve”, a un gruppo musicale spagnolo, sconosciuto ai più ma famoso tra i giovani, che recita come slogan “Rompiamo l’utopia/smettiamo di sognare/arriva la mescolanza, convivere in collettività!/Griderò che brucino le bandiere/per la fraternità/che cada il patriottismo e l’ostilità razziale/cultura popolare”. Non ho mai capito perché l’Italia si debba sempre dividere categoricamente tra favorevoli e contrari, per litigare e non trovare mai una soluzione in tempo e duratura. Sono però convinta non sia completamente colpa del Parlamento.

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