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venerdì 30 gennaio 2009

Perchè non mi ricandido

E’ venuto il momento di rendere pubblica la decisione che da tempo ho maturato di non ricandidarmi alle elezioni europee di giugno.
L’esperienza al Parlamento europeo è straordinaria, intensa, consente di confrontarsi a tutto campo e di avere uno sguardo proiettato sul mondo e ringrazio chi, nel 2004, mi ha proposta e sostenuta, così come ringrazio le tante elettrici ed elettori, soprattutto a Verona e nel Veneto, che mi hanno aiutata e votata.
Penso di essere riuscita a realizzare risultati. Per essere relatori di dossier significativi occorre dimostrare impegno, costante presenza e competenza. E’ anche l’eccesso di rotazione che penalizza la capacità di incidere a livello europeo e noi siamo un Paese in cui si tende troppo spesso a considerare il seggio al Parlamento europeo un’occasione cui rinunciare a fronte di qualsivoglia altro incarico locale o nazionale. E’ una contraddizione, quindi, non ricandidarsi e interrompere il filo delle relazioni attivate. Ne sono consapevole, ma credo di avere sufficienti e validi motivi.
Da quando ho iniziato a occuparmi di conciliazione tra vita professionale e vita personale e familiare, la mia vita è stata assorbita quasi completamente dal lavoro.
L’impegno al Parlamento europeo significa partire per Strasburgo o Bruxelles ogni lunedì (e finora non sono mai mancata), rientrare il giovedì e dedicare il venerdì e il sabato mattina alle iniziative, come ho cercato di documentare nel primo e nel secondo bilancio di mandato e di trasparenza (il terzo arriverà a conclusione). E’ un impegno a tempo pieno, che assorbe tempo, molto tempo. Troppo poco il tempo che resta per le persone care.
E poiché il personale è sempre intrecciato con il politico – ho sempre condiviso questa idea, cara soprattutto alle donne – non sarei in grado di spiegare oggi, dopo più di dieci anni passati intensamente (come consigliera di parità, come consigliera giuridica, …), perché dedicare altri cinque anni a un impegno di rappresentanza politica.
Se posso sperare e pensare di avere guadagnato almeno un po’ di stima e di fiducia al Parlamento europeo e nel gruppo socialista, l’attività svolta è rimasta quasi sempre lì recintata. Un lavoro di grande autonomia svolto in solitudine. Esattamente il contrario di quanto dovrebbe accadere, vista la responsabilità, che non è individuale, ma collettiva.
Di collettivo, in quanto ho fatto in questi ultimi anni, c’è troppo poco. Essere a Strasburgo o a Bruxelles impedisce di partecipare alle riunioni e di essere a contatto con l’attività del proprio partito. La stampa, controllata da chi governa, a tutti i livelli, non lascia spazio, agevolata dalla scusa che quanto si sta facendo a livello europeo si colloca su un piano troppo distante dall’interesse dei cittadini, contribuendo a rafforzare la deleteria idea di lontananza, che impedisce di vedere quanto la maggior parte dei temi siano decisi proprio a livello europeo. Occuparsi di lavoro e di economia, crisi finanziaria e recessione comprese, sembra purtroppo appartenere a questo stereotipo.
L’aggravante poi consiste nell’occuparsi di immigrati e di discriminazioni e di non seguire il pensiero unico dominante. Ed è evidente quanto abbia sentito la difficoltà di tenere fede a percorsi di ricerca e di impegno ed essere rappresentante di un’area del Paese che li vive in senso opposto.
La solitudine e la distanza da chi rappresento crescono così in misura esponenziale, non facendomi sentir parte di una rete, di un progetto collettivo.
Ho sempre lavorato per le donne e contro le discriminazioni. Ho partecipato con entusiasmo alla costruzione del nuovo partito, orgogliosa di essere stata chiamata e elaborare il primo Manifesto dei valori e il codice etico – che mi auguro ci si decida ad applicare – e di aver contribuito a rendere il Partito democratico un partito di donne e di uomini, con rappresentanza paritaria. Proprio perché ho contribuito in modo determinante a questa che si è tradotta in una falsa vittoria, mi assumo in gran parte la colpa. Le donne sono presenti per la metà negli organismi a composizione moltiplicabile e quasi del tutto assenti dalle cariche e incarichi monocratici, cioè dove si decide. Ho contribuito a creare un risultato che si è tradotto in una sconfitta per le donne, rese invisibili e quasi prive di voce collettiva.
Sono convinta che viviamo in una fase di transizione e mi auguro che si riprenda un percorso in cui ci si faccia carico dei problemi quotidiani delle persone con progetti che parlino al cuore e alla ragione, in cui si senta la forza delle idee. Per quello che posso, cercherò di contribuire, ma in altra veste.
Essere rappresentante di se stessi lascia una enorme libertà e produce soddisfazione. Ma i risultati ottenuti restano autoreferenziali, nella cerchia amicale, non sono oggetto di confronto né di verifica. La dinamica rischia allora di passare dalla separazione tra amici – nemici. Per chi crede nella rete, nelle alleanze, nella condivisione è una situazione inaccettabile. Non fa trovare senso al mio ruolo di rappresentante. Tutto resta ‘a titolo personale’. So che essere tecnico che cerca soluzioni normative significa svolgere ruolo politico. Ma questa condizione è più chiara come docente universitaria.
Riconosco di godere di privilegi: ho un lavoro che amo, che mi consente di tornare a fare ricerca e a confrontarmi con i giovani nell’età feconda degli studi universitari; vivo in un ambiente ricco di affetti e di serenità, impermeabile a esigenze superflue; non ho mai fatto parte dei cosiddetti salotti buoni, per carattere e per condizioni di vita.
Non sto rinunciando a impegnarmi. Anzi. Lo farò ancora, per quanto e come potrò per una società più giusta, più democratica, aperta e solidale.


Verona, 29 gennaio 2009 Donata Gottardi

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